Francesco Petrucci
Leggi i suoi articoliTra le stravaganze e il gusto per l’eccentrico dell’età barocca, espresso al massimo grado nell’allestimento di Wunderkammer o «musei delle curiosità», vanno annoverate anche bizzarre serie ritrattistiche monotematiche, sul tipo delle raccolte di ritratti di straccioni da strada atteggiati a noti filosofi dell’antichità inventate da Ribera e diventate un topos della pittura napoletana del Seicento.
Appartengono al genere nella seconda metà del secolo i ritratti esotici alla turca e all’armena molto praticati dal Mola e dai suoi emuli, come la serie eseguita da Baciccio per i principi Colonna, o le cosiddette «gallerie delle belle romane», esemplate sulla prima selezione commissionata dal cardinal Flavio Chigi al pittore fiammingo Jacob Ferdinand Voet.
Questa singolare collezione tipo concorso di bellezza, voluta da un porporato noto più per la sua galanteria e per le numerose amanti che per sentimenti di devozione religiosa (figg. 1, 2), è la più emblematica sia dal punto di vista della qualità sia da quello del valore documentario, essendo stata un modello per tante collezioni analoghe commissionate con varianti dai Colonna, dagli Altieri, dagli Odescalchi, dai Savoia e da altre illustri casate italiane.
Una vera e propria ossessione, quella delle «belle», che raggiunse nell’ultimo quarto del secolo effetti maniacali, tanto che quasi ogni palazzo o dimora, di città o di campagna, poteva vantare una sala dedicata alla bellezza muliebre. Questa è la ragione della enorme quantità di ritratti femminili riconducibili a invenzioni del Voet, acconciati secondo la moda francese degli anni 1670-80, spesso di bottega o semplicemente copie, che gravitano sul mercato.
Tale raccolta primigenia, portata a compimento tra il 1672 e il 1678, si conserva da sempre nel Palazzo Chigi di Ariccia, la più fastosa dimora extraurbana della famiglia (figg. 3, 4, 5), che aveva come principale residenza il palazzo di Roma, acquistato dallo Stato nel 1917 e oggi sede della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
La sontuosa dimora barocca fu ideata come un ibrido architettonico tra palazzo, villa e castello da Bernini e progettata dal suo allievo Carlo Fontana, che ne diresse tra il 1664 e il 1672 i lavori di ampliamento di una preesistente fabbrica cinquecentesca, iniziata dai Savelli su disegno di Carlo Lambardi come è stato possibile accertare solo recentemente (F. Bilancia, in Gli Orsini e i Savelli nella Roma dei papi…, 2017).
Completamente arredata, è un vero emblema del gusto decorativo e ornamentale del XVII secolo, conservando miracolosamente gli originari parati in corame, mobilia, sculture e una vasta quadreria, incrementata da prestigiose donazioni che hanno portato nel 2007 alla costituzione del Museo del Barocco Romano in un’ala dedicata. Di fronte la berniniana piazza di Corte, sul retro un parco naturale incontaminato di 28 ettari concepito da Bernini in spirito preromantico.
In origine la collezione di bellezze muliebri era costituita da trentasette ritratti, decimata in un disgraziato furto del 1986 e ascesa oggi, dopo la pubblica acquisizione del palazzo (il 29 dicembre 1988) e vari fortunosi recuperi, a ventotto esemplari (figg. 6-10).
Naturalmente le prime ragazze ritratte, tutte facenti parte della più nota aristocrazia, erano veramente belle. Mi riferisco alle sorelle Mancini, note come «mazzarinette» per essere nipoti del cardinal Mazzarino, che pur essendo di controverse origini nobili, lo divennero per calcolati matrimoni. In particolare Maria, principessa Colonna e primo amore di Luigi XIV, sicuramente molto avvenente, e la sorella Ortensia duchessa di Mazzarino, celebrata per la sua bellezza fuori dal comune.
Purtroppo i loro ritratti sono tra quelli della raccolta di Ariccia non ancora recuperati.
Furono comunque le due sorelle Mancini, accanto alla bellissima cognata Diane Gabrielle de Thianges sposa del fratello Filippo Mancini duca di Never, anche lui un «bello», le vere ispiratrici del rinnovamento in chiave sensuale di un genere che aveva tra i precedenti la serie medicea delle «bellezze di Artimino» (Uffizi), allestita tra fine ’500 e primo ’600.
La galleria chigiana assurge così a emblema del nuovo gusto trendy nell’abbigliamento dettato da Luigi XIV, di cui le Mancini furono prime interpreti, in contrapposizione alla severità della moda spagnoleggiante in voga nella prima metà del secolo, sorta attorno all’austera corte di Filippo IV.
Cambiano i colori, dal nero alla varietà di tinte, ma anche le nudità esposte, dalle braccia alle vistose scollature, alcune decisamente scandalose per il tempo, ma a nulla valsero i ripetuti editti dei papi per fermare gli eccessi. Si diffondono le prime parrucche, tutte con capigliature rigorosamente arricciate: il liscio generalizzato che oggi va tanto di moda non piaceva proprio!
Tuttavia le nobildonne che non erano state inserite nelle gruppo primigenio ben presto cominciarono a ingelosirsi e stranirsi, protestando con il cardinale e i nuovi committenti, lamentandosi con i loro effeminati consorti (anch’essi incipriati e imparruccati), costringendo così il pittore a inserirle in extremis tra le miss, allargandosi… talora un po’ troppo.
Nonostante Voet facesse di tutto per migliorare l’estetica di queste plurititolate giovani di sangue blu, alcune decisamente bruttine, risultato di matrimoni tra consanguinei e di unioni motivate solo da interessi economici, di casta e di potere, altre ormai bellezze sfiorite perché più avanzate negli anni, i risultati non potevano comunque nascondere completamente la realtà.
Come un moderno chirurgo plastico Monsù Ferdinando rendeva le labbra più carnose, i seni più abbondanti, regolarizzava i nasi e gli ovali del viso, ingrandiva gli occhi, acconciava le modelle con vaporose parrucche «alla francese», nastri e galani colorati, collane, orecchini e monili di perle «scaramazze», le ringiovaniva, ma per quanto potesse manipolare quei volti i ritratti dovevano pur rispondere a un criterio di somiglianza, altrimenti che ritratti erano!
Un espediente per riequilibrare il livello estetico delle vanitosa comitiva fu di ricorrere a ragazze di ceto leggermente inferiore, reclutate tra la piccola aristocrazia e la borghesia. Questa è una delle ragioni per cui molte «belle» belle lo sono veramente, ma non conosciamo i nomi, ad eccezione della serie Chigi ove dietro ogni tela è riportata in caratteri seicenteschi l’identità della dama ritratta. Un aiuto eccezionale che, dal tempo della mia monografia su Voet (2005), ha consentito di correlare tra loro anonimi ritratti e nomi reali.
Alcune delle giovani donne raffigurate, protagoniste della vita mondana romana tra feste, banchetti e ricevimenti, possono essere considerate veri e propri modelli di emancipazione femminile per la libertà della loro condotta, non avendo esitato a separarsi, motu proprio, dai blasonati e dispotici consorti. Scandali enormi per il tempo, inimmaginabili solo qualche decennio prima.
Così fecero Ortensia Mancini, infelice sposa del duca de La Meillayre de La Porte affetto da gravi turbe psichiche, o la sorella Maria, che lasciò senza preavviso Lorenzo Onofrio Colonna Gran Connestabile del Regno di Napoli, a seguito di incomprensioni, liti furiose e ripetuti tradimenti. Alla rocambolesca fuga nottetempo, in parte con la complicità nascosta del libertino cardinal Chigi che sembra fosse in rapporti galanti con Ortensia, seguì un peregrinare tra le corti europee, che portò Maria a risiedere a Madrid fino alla morte del marito (1689) e Ortensia in Inghilterra, trattata come una regina alla corte di Charles II e James II Stuart, di cui fu amante.
Si distinse per condotta scandalosa Cristina Dudley marchesa Paleotti, che l’abate Elpidio Benedetti definì «poco onesta […] essendosi sottoposta a diversi signori», fino a entrare tra le favorite di Lorenzo Onofrio Colonna cui diede anche una figlia illegittima.
Francesca Greppi Fani dopo la morte del marito ebbe una vita abbastanza avventurosa, con numerosi spasimanti come il marchese Andrea Muti o il marchese Giovan Maria del Monte, che arrivò a maltrattarla in pubblico con una teatrale scenata di gelosia. Il bigotto Innocenzo XI la fece rinchiudere in convento, da dove fuggì nel 1686 per trovare accoglienza come dama di compagnia nella corte in esilio di Cristina di Svezia.
Le maldicenze su Giacinta Conti Cesi, che «passava per la più bella e la più galante dama della sua età», amata perdutamente dal conte Ladislao Costantino Wasa e dal duca Annibal d’Estrées, costrinsero il papa a esiliarla in uno dei suoi feudi.
Il Seicento è tuttavia anche il secolo dei contrasti. Così nello stesso piano nobile del palazzo di Ariccia, una sala disposta verso il parco (la Stanza della belle affaccia sulla piazza di Corte) è la Stanza della suore in quanto ospita la relativa galleria ritrattistica. Quasi un’allegoria topografica della dimensione pubblica e di quella privata delle protagoniste (fig. 11).
Le religiose raffigurate sono tutte unite da stretti vincoli di parentela, sorelle nella clausura e per consanguineità. I ritratti, in parte opera del copista Pietro Paolo Vegli, alcuni copie da orginali del Voet sempre ad Ariccia, altri di anonimo pittore senese, raffigurano infatti le monache di casa Chigi nel secolo XVII: le cinque sorelle di papa Alessandro VII, suor Maria Pulcheria sorella del principe Agostino Chigi e le sue dieci figlie (figg. 12-16).
Maria Virginia Borghese si distinse infatti per eccezionale fecondità, riuscendo a dare al marito, in spasmodica attesa di un erede maschio e di qualche altro da destinare alla carriera ecclesiastica, ben diciassette figli, di cui quattro maschi (due morti prematuramente) e tredici femmine (altre due scomparse in età minorile).
Dei due ragazzi il primogenito Augusto, futuro principe di Farnese e duca dell’Ariccia, acquisì titoli e patrimonio, mentre il fratello Mario fece carriera nell’Ordine di Malta con voto di celibato. Delle sorelle, sette furono monache clarisse nel Convento francescano di San Girolamo in Campansi a Siena, città di origine della casata, e tre domenicane nel Convento dei Santi Domenico e Sisto a Roma, oggi sede dell’Angelicum, mentre una sola, Costanza, ebbe il destino (una scelta non si sa bene da cosa determinata) di convolare in giuste nozze con il principe Emilio Altieri duca di Monterano.
Un numero veramente eccezionale per la nobiltà del tempo, anche se l’abito clericale era una consuetudine finalizzata a conservare intatto il patrimonio familiare e nel caso femminile a ridurre le spese della dote, che per una famiglia altolocata erano ingenti.
Tre sorelle del papa, Ortensia, Ersilia ed Elena, erano clarisse nel Convento senese di Santa Margherita in Castelvecchio, ma tutte le altre andarono a far squadra nel Monastero di San Girolamo in Campansi, che venne radicalmente ristrutturato su finanziamento del principe Agostino Chigi divenendo una vera e propria succursale monastica della famiglia.
Le suore Chigi erano celebrate anche in un ambiente dell’austero cenobio detto Sala delle Principesse, tipo la Stanza delle suore di Ariccia, ove erano esposti ventiquattro dipinti comprendenti i ritratti delle monache e del principe Chigi, accanto a immagini di santi e della Madonna (B. Mussari, 2019).
Per quanto riguarda invece il Monastero domenicano dei Santi Domenico e Sisto a Monte Magnanapoli, esso nel XVII secolo era riservato all’aristocrazia, dato che potevano accedervi solo fanciulle al massimo grado di nobiltà; infatti, assieme alle sorelle Chigi, sono registrate negli elenchi esponenti di illustri lignaggi romani: suor Raimonda Colonna, suor Cherubina Mattei, suor Camilla Giustiniani, suor Angela Pia Capranica e così via.
Certamente alcune di queste sorelle fecero anche carriera nel chiuso delle sacre mura conventuali, talora divenendo Ministra cioè Madre Superiora, come suor Maria Pulcheria a Siena, o Procuratrice, come suor Flavia Virginia a Roma.
Le badesse, che disponevano di cospicue somme messe a disposizione dai principi e cardinali Chigi, organizzavano anche intrattenimenti musicali di carattere edificante secondo il genere del «recitar cantando», cioè melodrammi, drammi sacri e oratori, i cui testi, incentrati sull’uso di astruse metafore e allegorie, naturalmente esaltavano la negatività della vita mondana e la giusta scelta dell’opzione claustrale. Tra tentazioni e pericoli, trionfava sempre l’Amor Divino.
Peraltro Flavio Chigi, che fondò l’Accademia degli Sfaccendati coinvolgendo un gruppo di intellettuali, dette un notevole impulso all’attività operistica e teatrale, commissionando costosi melodrammi tenuti nel palazzo di Ariccia, come «Il Tirinto» (ottobre 1672) e «L’Adalinda» (ottobre 1673), con musiche di Bernardo Pasquini, Pier Simone Agostini, libretti di Giovanni Filippo Apolloni e scenografie di Carlo Fontana. Anche a Siena i Chigi tra la metà degli anni ’60 e gli anni ’80 promossero melodrammi, tra cui «L’Argia» su libretto dell’Apolloni o «Gli equivoci nel sembiante»musiche di Scarlatti.
In una lettera indirizzata nel dicembre 1668 al fratellastro cardinal Sigismondo Chigi, suor Maria Pulcheria (fig. 13) chiedeva un interessamento a far passare in convento, allo scopo di appurarne le doti canore e scritturarla, la famosa cantante Vincenza Giulia Massotti, nota come la «sirena del Tevere» nonostante la sua scarsa avvenenza, che aveva in programma intrattenimenti musicali a Siena.
Le monache Chigi avevano anche a disposizione una conversa che era a tutti gli effetti una loro servitrice, mentre probabilmente venivano perfezionate al canto e alla musica dai coristi e strumentisti del Duomo, dato che sin da fanciulle avevano avuto maestri di cembalo e chitarra a Roma come indicano le carte d’archivio. Ci sono in effetti pagamenti per «operine sacre» allestite per la monacazione di alcune suore in Campansi, ove assistevano i familiari, il principe Agostino e la principessa Maria Virginia, alcuni stretti parenti, come i Borghese, i Petrucci o i Piccolomini, e probabilmente l’arcivescovo della città.
Laura Chigi, che a giudicare dai suoi vari ritratti conservati ad Ariccia era molto carina (fig. 14), condusse una vita religiosa esemplare che la portò a essere eletta nel 1718 vice Priora, nel 1672 Priora e nel 1724 Procuratrice. Affetta in età avanzata da una forma grave di idropisia che non le permetteva nemmeno di stare a letto, morì il 23 aprile 1725.
Il padre le aveva assegnato una rilevante dotazione di ben 10mila scudi, anche per gestire la servitù che poteva mantenere nella clausura. Nell’archivio di famiglia sono riportati conti per la cerimonia dell’entrata in convento, con musiche del noto compositore Alessandro Melani, maestro di Cappella di Santa Maria Maggiore e poi di San Luigi dei Francesi. Esecutore fu il famoso cembalista Bernardo Pasquini, celebrato «principe della musica», come mostrano i conti: «A di 15 febbraio 1675 [...] scudi cento cinquanta e baiocchi 75 moneta pagati al Sig.r Bernardo Pasquini musico per la spesa delle paghe date tanto a musici che ad altri virtuosi che servirono il giorno della festa di S. Dom.co e Sisto, che si vestì monaca l’Ecc.ma S.ra D. Laura» (Biblioteca Apostolica Vaticana, archivio Chigi, n.1093).
Il letterato Giuseppe Berneri dedicò nel 1667 alla giovane monaca una sua commedia edita a stampa, L’onestà riconosciuta in Genuefa che fu poi santa di questo nome, incoraggiamento alla vita virtuosa lontana dal mondo. Per la vestizione a Siena della «eccellentissima signora principessa Donna Olimpia Chigi» nel 1686, tra le cantanti c’erano le sorelle novizie Maria Maddalena e Teresa Maria, accompagnate da basso continuo e due violini. L’opera in tre atti aveva come protagoniste l’Innocenza, il Diletto e l’Amore Divino: «al candor di puro giglio, provo il foco in mezzo al cor, all’ardor d’intatto giglio, vinto cede il sacro Amor», recitava il libretto.
Nel testo compariva anche, metafora di un parallelo poco incoraggiante con le «belle» del cardinale, un riferimento alla «bellezza divisa», allusiva al destino delle giovanissime sorelle Chigi chiuse in convento, alcune effettivamente di gradevole aspetto come appare dai loro ritratti (figg. 14-16). Per Sulpizia Chigi abbiamo il suo ritratto che Voet vestì come una «bella» e quello, poche settimane dopo, trasformata sadicamente in suor Maria Lutugarda (fig. 15): prima e dopo la cura!
Il pensiero non può non andare a Marianna de Leyva entrata bambina in un monastero benedettino come suor Virginia Maria, che ispirò la famosa Monaca di Monza.
Ma naturalmente il loro infelice destino, infausto soprattutto perché non determinato da scelte personali ma da imposizioni, era di rimanere recluse «le vie naturelle pendant» tra le mura del convento, dedite alla preghiera, alla penitenza e alla meditazione.
Infatti una consuetudine era l’esercizio di umiliazione e mortificazione, con la flagellazione e la tenuta di cilici a imitazione delle sofferenze di Cristo, sulla scia della santa del monastero senese, suor Colomba Tofanini, che aveva in uso di sottoporsi a indicibili tormenti, fustigandosi due volte al giorno. Prima della morte nel 1655 predisse alle sorelle di Fabio Chigi, sue sorelle nelle fede francescana, che il fratello sarebbe divenuto papa.
È così che gli aspetti salienti dell’età barocca trovano, nella paradossale convivenza in una stessa dimora di queste due contrastanti gallerie ritrattistiche, un loro emblema: la vita e la morte, l’apparenza e la sostanza, la moda e la tradizione, l’amor sacro e quello profano, l’ostentazione e la riservatezza, la mondanità e il misticismo, il piacere e la rinuncia, la sensualità e la sua repressione.
Una mediazione tra le due realtà avrebbe dovuto essere rappresentata dalla figura del cardinale Flavio (Siena, 1631-Roma,1693), ma su questo aspetto, tutto da verificare, soprassediamo. Infatti lo zio Alessandro VII, come riporta una memoria del tempo, cercava di dargli incarichi e indirizzarlo verso svaghi edificanti al fine di distoglierlo dagli «impulsi venerei da’ quali […] era vivamente travagliato», ma con scarsi risultati.
D’altronde un suo ritratto in vestaglia che fa da sconcertante controparte a quello ufficiale da cardinale, entrambi mano dell’amico e complice Monsù Ferdinando, la dice lunga sul personaggio e le sue reali aspirazioni (figg. 1, 2).
Ma Flavio Chigi fu comunque uno straordinario e innovativo mecenate delle arti, dal teatro alla musica, dall’architettura alla pittura, scultura e arti decorative, servendosi della consulenza di Bernini, che gli progettò la residenza romana ai SS. Apostoli, di architetti come Carlo Fontana, che sovraintese alle sue fabbriche nei vari feudi, patrocinando pittori come Salvator Rosa, Mario de’ Fiori, Maratta, Baciccio, Francesco Trevisani, alcuni da lui scoperti, dando impulso alla pittura di genere.
Ma quale fosse il suo orientamento tra mondanità e contrizione mistica appare scontato. Infatti nel novero delle opere commissionate, oltre alla citata sfilata di bellezze, c’erano anche opere come il «Bagno femminile» di Viviano Codazzi e Michelangelo Cerquozzi, certo «di per sé sorprendente per un cardinale» (F. Haskell, Mecenati e pittori, 1963).
Bibliografia essenziale
Sul palazzo di Ariccia vedi: F. Petrucci, Palazzo Chigi ad Ariccia, Ariccia 1984; L’Ariccia del Bernini, catalogo della mostra, a cura di M. Fagiolo dell’Arco, F. Petrucci, Ariccia, Palazzo Chigi, Roma 1998; M. Villani, Ariccia. 3. Palazzo Chigi, in Atlante del Barocco in Italia. Lazio / 1. Provincia di Roma, a cura di B. Azzaro, M. Bevilacqua, G. Coccioli, A. Roca De Amicis, Roma 2002, pp. 68-69; Palazzo Chigi in Ariccia / guida illustrata, a cura di F. Petrucci, Ariccia 2018.
Sulle gallerie delle «belle romane» e le loro biografie, comprese alcune monache Chigi, vedi C. Benocci, T. di Carpegna Falconieri, Le Belle. Ritratti di dame del Seicento e Settecento nelle residenze feudali del Lazio, Roma 2004;F. Petrucci, Ferdinand Voet (1639-1689) detto Ferdinando de’ Ritratti, Roma 2005.
Sulle monache Chigi vedi: U. Frittelli, Albero genealogico della nobil famiglia Chigi patrizia senese, Siena 1922; A. Eszer, Prinzessinnen Chigi als nonnen in den klöstern S. Girolamo in Campansi zu Siena und SS. Domenico e Sisto zu Rom, in Römische Kurie. Kirchliche Finanzen. Vatikanisches Archiv. Studien zu Ehren von Hermann Hoberg, a cura di E. Gatz, Roma 1979, pp. 171-196; C. Reardon, Holy concord within sacred walls. Nuns and Music in Siena, 1575-1700, New York, Oxford University press 2002, pp. 123-266.
Su San Girolamo in Campansi vedi ad ultimo: B. Mussari, Una committenza chigiana tra Roma e Siena: progetti per la chiesa di San Girolamo in Campansi, in Studi sul Settecento Romano. Temi e ricerche sulla cultura artistica, II. Antico, Città, Architettura, IV, a cura di E. Debenedetti, Roma 2019, pp. 87-118.
Sull’Accademia degli Sfaccendati vedi R. Lefevre, Accademici romani del ‘600 gli «Sfaccendati», in «Studi Romani», anno VIII, nn. 2-3, 1960, pp. 154-165, 288-301; R. Lefevre, Il «Tirinto» di Bernardo Pasquini all’Ariccia (1672), in «Lunario Romano», Roma 1986, pp. 237-268; R. Lefevre, La rappresentazione all’Ariccia nel 1673 dell’Adalinda di P. S. Agostini, in «Strenna dei Romanisti», 18 aprile 1989, pp. 239-258.
L'autore è architetto e storico dell'arte, dal 1998 Conservatore del Palazzo Chigi di Ariccia
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